Il fermento storico di quegli anni non può lasciare
nell’indifferenza architetti di vecchia e nuova generazione. Il “secolo breve”
si è concluso, i blocchi internazionali si sono lacerati e i confini geografici,
culturali, identitari sono materia plastica da rimodellare secondo le nuove
esigenze della società post-fordista che vuole liberarsi dalle rigide norme
internazionali. La rottura è il concetto che sta alla base della nuova era
informatica, in cui l’immagine drammatica del mondo dopo la crisi degli anni
’70 non poteva più essere ricomposta riassemblandone i pezzi. Decostruire, un’immagine che non lascia
spazio alla ricomposizione di ciò che è andato distrutto, ma che anzi apre la
possibilità agli architetti contemporanei di poter guardare lo spazio in modo
trasversale. L’unico modo per comunicare con l’esterno è scatenando emozioni
forti e destabilizzando le menti, attraverso ambienti che nel loro dispiegarsi
ci turbano, si muovono ed evocano simboli ed immagini. Così Libeskind pensa il
suo Museo Ebraico, o Steve Holl il Kiasma.
La crisi del sistema industriale dà l’opportunità alla nuova società
della comunicazione di riconquistare spazi abbandonati all’interno e fuori da
quelle città private della loro funzione originaria e agli architetti di
riconfiguararle secondo le nuove esigenze. La città funzionalista viene
abbandonata insieme all’idea seriale di vita secondo comparti omogenei per
abbracciare un nuovo fluire vitale di interconnessioni dinamiche che combinano
architettura, società e naturalità in un programma di mixitè. Potzdamer Platz di Renzo Piano, i Grands
Projects di Parigi, la nuova Barcellona che approfitta dell’evento
internazionale delle Olimpiadi per rilanciare economicamente la propria città e
gli stessi cittadini alla condivisione. Una vitalità, quella degli anni ’90,
che porterà architetti e paesaggisti a confrontarsi con un mondo alla deriva,
sofferente, distrutto dall’era macchinista, perpetuatasi per 150 anni: si
rivendicano l’ecologia e l’attenzione verso forme di energia sostenibile e
rinnovabile. Il progetto Biosphere 2
è un organismo un sistema fragile che va tutelato e preservato.
Altri gesti si possono menzionare per descrivere le
nuove scoperte: muovere emozionando, giustapporre sovrapponendo, dare
profondità attraverso le superfici. Santiago Calatrava sperimenta sculture in
movimento, che anche quando sono immobili animano il fruitore, facendolo
diventare anche spettatore. Rem Koolhas invece scompone immagini e spazi e realizza
architetture senza comporle, ma somma le parti dell’organismo creando
ibridazioni sempre diverse e suggestive, paradossalmente interconnesse. Le
trasparenze della facciata della Fondazione
Cartier di Jean Nouvel sono fittizie, sono come degli specchi, che mostrano
all’esterno non quello che c’è dentro ma quello che la società e il mondo vuole
vedere. La superficie è una pelle ed ha uno spessore: così Herzog & De
Meuron intessono le loro facciate. Peter Eisenman risponde in modo nuovo al problema del movimento attraverso l’operazione del blurring, cioè sovrapponendo singoli movimenti rotatori che sfocano e negano l’immagine di partenza; un’azione che genera spazi audaci di cui ha consapevolezza solo chi sa lavorare sulla sezione (Aronoff Centro per le Arti, Cincinnati, 1988-97). Folding, grafting, scaling generano spazi ricchi, multisfaccettati, ibridi, dinamici.
Frank Gehry concepisce i suoi spazi come una scena teatrale in cui i suoi personaggi-volumi possono esprimersi, seguendo percorsi e traiettorie scultoree e configurando spazi racchiusi nell’abito più comodo possibile. Il protagonista è lo spazio e il suo pubblico la sua pelle in un rapporto di reciproca dipendenza. L’architetto dimostra al mondo come l’architettura possa essere un catalizzatore di eventi, di economia, di socialità, come nel Museo di Bilbao: il consumismo diventa una pratica architettonica, entra a far parte della società come episodio, come fenomeno condivisibile da tutti.
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