martedì 18 giugno 2013

Partnership_AK0

Architettura a Kilometro 0 

Svolge attività sperimentale, didattica, ricerca e pratica professionale. Si è formato nel 2009 con l'obiettivo di studiare metodi di progettazione collettiva e sistemi costruttivi con impronta ambientale sostenibile; è un do-tank le cui azioni sono ancorate alla realtà d'intervento ma con imput culturali e tecnologici provenienti da un network a scala mondiale.

I servizi che il gruppo fornisce sono:

_progettazione di sistemi costruttivi con materiali naturali
_sviluppo di soluzioni costruttive finalizzate all’impiego di materiali di riciclo e/o scarti di lavorazione
_coordinamento di processi di progettazione e costruzione partecipativi con il coinvolgimento degli utenti finali e/o della comunità locale
_attività formative per scuole primarie e secondarie
_attività didattico-sperimentali in ambito accademico
_studi e ricerche su prestazioni energetiche dei sistemi costruttivi
_indagini sul potenziale di trasformazione di contesti socio-economici informali


Projects:

2012
PROTOTIPO CASA DEI MESTIERI
Marina di Sibari (CS), ItaliaRealizzazione di un modulo sperimentale in legno e pisé con funzione di prototipo per il progetto Casa dei Mestieri Cerro La Grenadilla, Guatemala.In collaborazione con MezzosangueLab, MasterHousing di Roma Tre e Associazione Sulla Strada Onlus.
2012

INTERNINTERRA
Sirmione (BS), Italia
Finiture e complementi di arredo in terra cruda in una casa storica sul Lago di Garda.
In cooperazione con Arch. Fabio Furiani e Associazione Nazionale Città della Terra Cruda.
2011

NIDO DI BAMBU'
Stiava (LU), Italia
Guscio reticolare in bambù splittato della Versilia (Phyllostachis viridiglaucenses)
Workshop didattico-sperimentale in cooperazione con Associazione Italiana Bambù (AIB) e Il Bambuseto.
2011

AK0XMH (con Sandro Sancineto)
Casalincontrada (CH), Italia
Piccolo modulo abitativo autocostruito in legno, terra cruda e canna di fiume.
Workshop didattico all'interno del Corso Housing - nuovi modi di abitare tra innovazione e trasformazione, Master di II° livello promosso dall’Università di Roma Tre.
2010

S-BAM.IT
Roccamontepiano (CH), Italia
Struttura multifunzionale in bambù italiano, legno e terra cruda. Prototipo costruito nell'ambito di un workshop didattico internazionale.
2009

SHELLter
Roccamontepiano (CH), Italia
Prototipo per un modulo abitativo d'emergenza autocostruito in legno, terra cruda e canna di fiume.
Workshop didattico-sperimentale
Background:
2008

RITI DEL COSTRUIRE (con Caterina Padoa Schioppa)
Roma, Italia
Struttura multireligiosa per l’ateneo di Roma Tre realizzata nell’ambito di un workshop didattico-sperimentale. Sistema alveolare presso-teso in cartone ondulato di riciclo.
2008

PLASTICHE PULITE (con Piergiorgio Rossi e Monica Preziuso)
Velletri (RM), Italia
Copertura per la tribuna temporanea di un campo da calcio spontaneo.
Progetto scolastico di educazione ambientale.

2005

MERCATINO DI CARTA (con Piergiorgio Rossi)
Morano Calabro (CS), Italia
Padiglioni progettati ed autocostruiti da studenti di architettura ed alunni di scuola media.
Progetto scolastico di educazione ambientale.

SUN-RICE (con V. Varano, M. Kavalirek e s.e.l.f. - officina di architettura)
Roma, Italia
Prototipo di copertura tessile in rafia sintetica riciclata.
LIXO VIRA LUXO (con L. Cicalini)
Murici (Alagoas), Brasile
Progetto di educazione ambientale con bambini di una comunità rurale brasiliana.
2004

CENTRO DI FORMAZIONE PER RAGAZZI DI STRADA (con s.e.l.f. - officina di architettura)
Murici (Alagoas), Brasile
2001

CENTRO DI ASSISTENZA ALIMENTARE (con Luigi Rebecchini)
Quartiere di Derrier-Wharf, Abidjan, Côte d’Ivoire
1999

CENTRO DI FORMAZIONE PROFESSIONALE FEMMINILE
Quartiere di Derrier-Wharf, Abidjan, Côte d’Ivoire

 I miei interlocutori:
 


Arch. Stefan Pollak
Arch. Laura Di Virgilio












L'incontro nello studio Officina Architettura dell'arch. Stefan Pollak
 
_Appuntamento: 17.6.2013 ore 10.30
 
Tanta tensione all'ingresso, ma nel momento in cui Laura Di Virgilio mi accoglie alla porta dello studio...l'ansia cresce!
Vedo subito il libro di Urban Voids di A. Saggio sulla sua scrivania...e mi sento accolta... Stavano aspettando me!
  • Presentazione del progetto con gli elaborati grafici con Laura di Virgilio e Stefan Pollak
  • Introduzione delle varie tecniche costruttive con materiali naturali (PISE', ADOBE, pannelli di QUINCHA.) e di esempi di progetto compatibili al mio progetto a cura di Laura di Virgilio.
  • Individuazione di nuovi livelli di intervento soprattutto per incrementare l'appetibilità economica del progetto e l'autosostentamento:
  1. Laboratorio di autocostruzione all'aperto, con masterclass trimestrali con alloggio incluso. Realizzazione di un PROGETTO DI MASSIMA che verrà realizzato dai partecipanti alle classi; alla fine del corso gli edifici verranno smontati e rimontati dal corso seguente, riciclando gli stessi materiali o impiegando quelli provenienti dall'ISOLA ECOLOGICA. Piccola area dedicata alla sperimentazione di nuove tecniche e materiali. 
  2. ISOLA ECOLOGICA per il recupero dei MATERIALI DA COSTRUZIONE.
  3. Fondazione di una piccola ditta autocostruttrice specializzata in ALLESTIMENTO DI SCENOGRAFIE ecoTEATRALI.
  4. Ricerca espressiva attraverso il trattamento dell'INVOLUCRO e di molti ELEMENTI    STRUTTURALI con materiali naturali e tecniche di autocostruzione, per dare unitarietà agli spazi delle piattaforme.
  5. Realizzazione per il LIVING TEMPORANEO di MODULI FISSI in autocostruzione e moduli mobili-componibili realizzati dal laboratorio di autocostruzione in base alle prenotazioni durante gli eventi musicali.
  6. SPAZIO COPERTO dedicato alle lezioni frontali con sale riunioni e uffici amministrativi.
  7. Dedicare il REBUILDING NATURE alla produzione a kilometro e a costo 0 dei materiali da impiegare per il laboratorio.
  8. Realizzazione PROGRESSIVA del teatro al chiuso ATTRAVERSO IL CONTRIBUTO DEI CITTADINI ATTIVI: ARENIAMOCI! ognuno può donare dei sacchetti di terra per costruire le mura in pisè del teatro; sarà inciso il nome dei contribuenti su ogni strato murario dello spessore di 15 cm! Quindi il teatro sarà non il punto di partenza progettuale, ma la META di un percorso condiviso! Questa sarà la DRIVING FORCE: REALIZZARE IL TEATRO! Come la TORRE DI BABELE solo se ci sarà la collaborazione di tutti il progetto potrà essere concluso, o meglio potrà INIZIARE; altrimenti esso cadrà e sarà il segnale della completa chiusura culturale della nostra città!
_Conclusione dell'incontro ore 13.08!!!!!! Direi che abbiamo di netto superato la mezz'ora di collaborazione che avevo richiesto agli architetti!!!!!!!
 
GRAZIE AK0! Se volete aggiungere qualche nota riguardo ilo nostro incontro vi prego di lasciare un commento qui sotto!
     
     
     
 
 
  

lunedì 17 giugno 2013

Partnership_Pino Petruzzelli

Pino Petruzzelli


Scrittore e attore, dopo gli studi presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico” di Roma, lavora per mettere la cultura al servizio di importanti cause sociali, andando a conoscere in prima persona le realtà che poi racconta. Fonda il Centro Teatro Ipotesi (http://www.teatroipotesi.org/), che si occupa di temi legati al rispetto e alla conoscenza delle culture. La prima meta sono le riserve degli Indiani Pueblo in Nuovo Messico poi, per anni, attraversa le nazioni dell’area mediterranea vivendo come e con le persone che incontra. Conosce i principali artisti e intellettuali, ma anche la gente comune. Vive in case palestinesi e in case israeliane toccando con mano la fatica di vivere quel conflitto, dall’una e dall’altra parte. Dorme sotto lo stesso tetto di chi trascorre la propria vita nel deserto della sopravvivenza dove l’unica acqua disponibile è contaminata da fosfati. Conosce e frequenta l’attore algerino Rachid scampato ad un attentato terroristico in cui fu sterminata tutta la sua compagnia teatrale rea di aver rappresentato un testo scomodo. In Albania incontra chi ha conosciuto le torture e le prigioni del regime comunista di Enver Hoxha. Da questi viaggi nascono spettacoli in cui racconta la profonda umanità di chi è costretto a vivere situazioni difficili. Scrive “Piccolo viaggio lungo il Mediterraneo” e, con il giornalista Massimo Calandri, “Marocco”, “Albania” e “Il G8 di Genova”. Nel 2004 scrive “Grecia”, sulla vita dello studente Kostas Georgakis che si diede fuoco in una piazza di Genova per protestare contro il regime dei colonnelli e “Zingari: l’Olocausto dimenticato” (coprodotto dal Festival di Borgio Verezzi e trasmesso dalla trasmissione Terra! di Canale 5 e da Rai 3). Nel 2005, con Predrag Matvejevic’ e il giornalista di “La Repubblica” Massimo Calandri, scrive “Periplo Mediterraneo”, un testo che racconta la vita di chi, in un Mediterraneo tutt’altro che pacificato, vive sulla propria pelle gli orrori della grande Storia. Nel 2006 con “L’olocausto di Yuri” racconta le responsabilità che ebbero scienza e medicina durante il nazismo (anch’esso trasmesso da Terra!). Nel 2007 percorre l’Italia di chi vive lavorando la terra e, dagli appunti di quel viaggio, nasce lo spettacolo “Di uomini e di vini” (che diventa anche un libro) dedicato alla vita e alla fatica dei vignaioli. Nel 2008 mette in scena “Con il cielo e le selve” tratto dal libro “Uomini, boschi e api” di Mario Rigoni Stern. La cultura rom e sinta è l’ultima tappa di un’erranza iniziata vent’anni prima. A giugno 2008 esce il libro “Non chiamarmi zingaro”, edito da Chiarelettere e con prefazione di Predrag Matvejevic. Nel 2009 crea in collaborazione con Regione Liguria e Comunità di Sant’Egidio il “Primo Corso di Formazione Professionale per Operatori dello Spettacolo”, indirizzato a Rom e Sinti. In occasione della Giornata della Memoria 2009 mette in scena “Ritorno al lager” omaggio a Mario Rigoni Stern. Nel 2010 porta in scena, in prima nazionale, il testo “Storia di Tönle” di Mario Rigoni Stern. Nel 2011 debutta lo spettacolo “Io sono il mio lavoro” prodotto da Mittelfest. Nello stesso anno esce il libro “Gli ultimi” edito da Chiarelettere con prefazione di don Andrea Gallo.
Nel 2012 scrive il monologo teatrale “L’ultima notte di Dietrich Bonhoeffer”.
Dal 2000 è direttore artistico del Festival teatrale “Tigullio a teatro” a Santa Margherita Ligure.
Collabora con il giornale “Il Fatto Quotidiano” e con il portale di approfondimento “Cado in piedi” attraverso suoi blog.
 

L'intervista "telefonica"

(un'estratto che ho visto recitare agli attori del Teatro Valle
Rapita dall'estratto di “Zingari: l’Olocausto dimenticato” al Teatro Valle Occupato il 7 aprile 2013(nonché giorno del mio compleanno!) in occasione della Giornata internazionale dei rom e dei sinti di Roma, faccio delle ricerche sul net e decido di contattare per e-mail l'autore dello spettacolo!La sua disponibilità e la sua amichevole cordialità mi hanno assolutamente sorpreso ed entusiasmato, e la conversazione telefonica Roma-Genova è stata un ottima occasione di confronto e scambio. Cerco di riassumere con domande "strette" il conetnuto di una telefonata tutt'altro che formale e poco colloquiale!
 
Roma come ben sa, è una città xenofoba, chiusa nei confronti dei rom e della loro cultura. Il suo teatro si trova a Genova. Quali differenze riscontra tra queste città a livello di apertura culturale?
 
Genova e Torino sono indubbiamente le città culturalmente più aperte d'Italia, città che mi hanno dato la possibilità di rappresentare le mie opere teatrali con un rilievo considerevole. Portare la cultura roma al Palazzo Ducale di Genova (http://www.palazzoducale.genova.it/naviga.asp?pagina=14414), la sede più importante della città, è indubbiamente un'ottima occasione per esporre e mettere in evidenza questi temi. Molto spesso la forma diventa il principale tramite, biglietto da visita per mettere in evidenza dei contenuti. Se il luogo della rappresentazione è prestigioso, il valore dell'oggetto cambia considerevolmente: se si edita un libro da Einaudi o da una casa sconosciuta cambia la clientela, la distribuzione del contenuto e quindi l'attenzione verso il tema!
 
Secondo Lei, la proposta progettuale di uno spazio teatrale e di spazi performativi all'aperto e permeabili, quali influenze avrebbe nelle suo tipo di rappresentazione teatrale, o in generale per altre performance gitane?
 
Uno spazio del genere potrebbe essere interessante. Per quanto mi riguarda, nel momento in cui metto in scena uno spettacolo mi confronto prima con lo spazio, lo studio, e mi adatto alla sua conformazione.
 
Cosa pensa delle intenzioni progettuali e della modalità con cui sto cercando di affrontare la questione dell'integrazione e soprattutto dello scambio culturale con la/e comunità rom di Roma?
 
Già occuparsi della questione rom è un grande passo in avanti. E il fatto di pensare alla cultura come mezzo attraverso cui innescare un processo di partecipazione è sicuramente una strategia vincente. Se non c'è rispetto per la cultura, non ce ne sarà nemmeno per chi la possiede.
 
GRAZIE PINO!
P.S. Se vuoi aggiungere qualche nota sulla nostra conversazione ti prego di lasciare un commento qui sotto!
 
 
 
 
 
 
 

 


lunedì 22 aprile 2013

BANG_connessioni!


Lucien Kroll_Maison Medicale ("MéMé") Bruxelles_1970/75

BANG: Ensamble

Maison Medicale ("MéMé") Università di Louvain_Woluwè-St.Lambert (Bruxelles)_ 1970/75

Dall’alto, l’ex paesaggio rurale belga si presenta come un tappeto tempestato di un sottile pattern di case di periferia. Le loro infinite e idiosincratiche variazioni sul tema della vita individuale riflettono una varietà senza differenza. L'immagine eterogenea del MéMé secondo il suo architetto Lucien Kroll, è frutto di un assemblaggio per empatia delle sue diverse parti. Un processo aperto diventa la motivazione per la sua forma e la complessità. Questo non può essere ridotto semplicemente alla produzione di un oggetto architettonico o anche ad una estetica, ma è semmai il prototipo di un rovesciamento radicale dell’architettura. Il MéMé sarebbe quindi un manifesto-edificio: riconosciuto come un "icona di architettura democratica", Kroll è consacrato come il campione di architettura partecipativa. Il suo ruolo, tuttavia, non si limita alla seppur rilevante questione della partecipazione. Un oggetto di culto e di attacchi feroci, l'edificio nel campus di Woluwe-Saint-Lambert  è un elemento destabilizzante dell’architettura del 20° secolo. E come un vero e proprio oggetto sconvolgente, rivela sorprendenti analogie con le facilmente riscontrabili nell’arte contemporanea.
 
L'invenzione collettiva
 
La partecipazione è una questione complessa, come Giancarlo De Carlo ci ha ricordato quando ha sottolineato che l'atteggiamento comunicativo dell'architettura è potenzialmente a disposizione di tutti. La comunicazione attraverso l'architettura è un atto eminentemente politico; Kroll sostiene: l'architetto è il catalizzatore di un processo creativo e di dinamica sociale, rispetto al quale mettono loro sapere a disposizione per la traduzione delle relazioni interpersonali in uno spazio adeguato. Il processo partecipativo deve quindi essere messo in moto, o almeno, gli architetti devono uscire da se stessi e mettersi nei panni dei futuri abitanti. L'architettura deve essere salvata dal dominio esclusivo dell'architetto, e reindirizzato verso la partecipazione, con "un'azione aperta a nuove necessità e alle decisioni che sono sempre provvisorie e incomplete". In breve, un’architettura-processo (definito da Kroll come Incrementalismo) non è poi così diversa dall’Arte Processuale. Dal 1966 - '67, quel movimento aveva di fatto respinto tutte serialità per evidenziare il processo di costruzione dell'opera e la sua evoluzione nel tempo, con l'aiuto di assortiti materiali naturali e industriali. Le ramificazioni di Process Art giunsero fino a Joseph Beuys, la cui biografia, insieme al suo impegno ecologico, contiene un evento curiosamente simile a quello di Kroll. Quasi contemporaneamente, infatti, nel 1972, Beuys è stato licenziato dal suo posto di professore presso l'Accademia di Düsseldorf per aver sostenuto l'occupazione della scuola da parte dei suoi studenti, mentre UCL (Université Catholique de Louvain) ha impedito all'architetto belga di completare il suo progetto del campus, a causa di incompatibilità culturale. Tra il 1970 e il '72 la Zona Sociale della UCL era un teatro di sperimentazione, ricerca e opzioni, in seguito esplorato da Kroll mentre si rivolgeva sempre di più verso una visione panoramica dell’abitare. Qui la portata e la complessità del breve gli ha permesso di prevedere un’azione il cui esito si sarebbe spinto al di là dell'oggetto architettonico verso un'entità complessa dinamica. "Come un tessuto vivo spugnoso", si è definito in un continuo scambio con l'ambiente circostante. In questa luce, il layout circolazione assume un ruolo cruciale. Alla scala micro-urbana, una rete di punti di accesso sovverte meticolosamente il piano con la riduzione di una strada a sei corsie ad una strada secondaria di collegamento. Un decennio più tardi, la stessa logica di permeabilità sottende l'estensione della metropolitana di Alma, per l'unica stazione a cielo aperto di Bruxelles, su progetto di Kroll stesso. Ma soprattutto è sulla scala del palazzo che la logica di un flusso continuo si vede, in un risultato a metà tra Escher e Piranesi: nel "MéMé tutto comunica e si apre, ogni elemento vede e in grado di capire e soddisfare gli altri. Le solette sono aperte tra un livello e l'altro, le pareti sono tagliate, i lucernari sono trasparenti dappertutto, e i balconi sono visibili l'uno all'altro. Ci sono numerosi ingressi, così la gente può venire da qualsiasi luogo, dalle cantine agli attici e le scale terrazza, dalle passerelle ". Questo permette di affrontare anche restrizioni ingombranti, come uscite di sicurezza, in modo diverso. C'è chiaramente un omaggio qui al concetto di vita comunitaria e di una società "trasparente" strettamente legata alle idee di quegli anni. Tuttavia, la Maison Médicale comprende anche zone "opache", di alloggio "normale": diverse, ma mitigate nella costruzione di un progetto collettivo - non come il "soggettivismo nuovo" che produce personalizzazioni di massa, iper-richieste dal mercato.
 


 
Le grand jeu - il grande gioco
E’ stata ideata una metodologia molto originale che stimola la conoscenza intuitiva e spontanea, “un gioco con un impatto diretto sulla realtà". Ciò consente una stratificazione storica del lavoro da ricreare in vitro, partendo da un rifiuto di unità canoniche (funzione, lingua, tempo). Ma che linguaggio utilizzare? Se dopo il moderno, la regolarità e la simmetria hanno trasmesso nient’altro che un senso di ordine innaturale, ci si potrebbe anche rivolgersi a pratiche"situazioniste" in architettura: considerare il primo elemento a caso (come da un mazzo di carte da gioco); rilevare la sua configurazione e dove risiedono le sue caratteristiche specifiche, in modo da inserirsi in un contesto generale senza distruggere o ridurlo ad un'astrazione. Un mosaico è così completato, dove la motivazione del segno è aleatorio. Tutto questo, nel caso del MéMé, viene tradotto in un alzato molto discusso, con la sua miscela di finestre e legno, alluminio e pannelli di ferro: un repertorio di elementi costruttivi utilizzando la coordinazione modulare di elementi assortiti. Qui abbiamo un caso estremo di tecnologie esplorate per la loro libertà creativa, come risposta alla gran parte dell'architettura dello stesso periodo, che non è riuscito a ottenere nulla al di là della prefabbricazione spoglia. "Prima di tutto classificare il paesaggio abitato all'interno di conoscenza 'globale' umana, e poi discutere i mezzi di materializzazione: tutti possono contribuire. Le relazioni dovranno essere reinventate con nuove tecniche artistiche", ha sottolineato Lucien Kroll del suo progetto per la Padiglione francese alla Biennale di Venezia 2006. Uno di questi mezzi di materializzazione è certamente quello della natura. I giardini selvatici piantati sulle colline artificiali intorno al MéMé, sotto la guida pionieristica di Luis Le Roy, allude ad un altro processo aperto, autonomo e naturale, poiché la natura contiene ogni possibile struttura. La paura dell’istituzione di perdere il controllo sul processo ha condotto alla sua botanica e ad un’altra "normalizzazione", ma senza cancellare ogni traccia. Grandi alberi oggi appaiono irregolari sulle piste, adattandosi della misura del tempo passato. Non è il tempo che spaventa questo progetto, la cui costruzione porta tutti i segni del suo sviluppo, in una sorta di archeologia preventiva. Ma gli anni sono stati testimoni di una serie di alterazioni incongrue e irrispettose perpetrate dall'università, che non ha mai voluto accettare il valore di questa architettura. Paradossalmente, il MéMé dovrebbe essere un quotato "monumento", non tanto per congelare il processo per evitare la sua rovina. Come una legatura emostatica, porte chiuse, passaggi bloccati e marciapiedi non utilizzati oggi ostacolano il flusso della vita. Invece di imporre restrizioni, la legittimità di travaso da una differenza ad un’altra dovrebbe forse essere riconosciuta: come la continuità nella differenza osservata da Lucien Kroll così come nel paesaggio frammentato del Belgio.

Architettura e Modernità_alla ricerca di un BANG!


Parte Quinta. gli anni del linguaggio: 1968-77
20. Nuove libertà

Lo spirito nuovo di liberazione della primavera del 1968 esplode e si espande come un Big Bang in ogni dimensione e traiettoria: artistica, sociologica, politica, filosofica. La società dei grandi numeri e delle manifestazioni pubbliche cerca di espandersi attraverso il personal computer, come affermazione personale della propria autonomia rispetto alle istituzioni che fino ad ora avevano detenuto il potere di calcolo. E’ un giocattolo rivoluzionario che permette di costruire e trasformare il mondo, è ormai un prodotto di consumo non più alienante come era considerato nell’immediato dopoguerra. I benefici del progresso superano le perplessità iniziali.

Sperimentazioni diagonali
La creazione spaziale all’inizio degli anni ’70 è alla ricerca di dinamicità, trasversalità, di percorsi che frammentano piani, rampe, piattaforme a diverse quote (Claude Parent, Padiglione Francese alla Biennale di Venezia, 1970). L’architettura e l’arte si ibridano e si sperimentano a vicenda.
In architettura il tema della liberazione viene affrontato da Günther Benisch nel Parco Olimpico di Monaco del 1972, nel quale l’idea del villaggio si traduce in una tensostruttura che si estende oltre lo stadio: trasparenza, vitalità, apertura.
Nel 1971 John Johansen dà corpo ad una musica che esplode nello spazio del Mummers Theater ad Oklahoma City. Si presenta in pezzi autonomi che si compongono attraverso le corde dei suoi tubi-percorsi. L’edificio non esiste più, è uno strumento, la scatola è smantellata.
Renzo Piano e Richard Rogers vincono il concorso per il centro di arte contemporanea ricavato dall’abbattimento dei mercati delle Halles nel centro di Parigi. Il Centre Pompidou è un’architettura senza stile nella quale tutti i sistemi di circolazione sono posizionati all’esterno per lasciare l’interno a disposizione dei diversi e mutevoli utilizzi, anche nel tempo. La libera fruizione dell’arte rende l’opera libera, senza immagine e ancillare al suo contenuto. La tendenza High Tech sconvolge l’idea industriale di architettura ed esalta la sua componente efficientistica. Il programma si basa sulla fruizione libera nello spazio e nel tempo.

La partecipazione
La società degli anni ’60 ha mutato i propri valori culturali per accogliere scelte multiple; si scopre che esistono scale intermedie dell’abitare, dove non c’è più una netta distinzione tra lo spazio privato e quello pubblico, tra la casa e la strada. L’architettura delle relazioni è uno spazio partecipato nel quale l’architetto perde la propria posizione dogmatica per accogliere le indicazioni dei fruitori attivi. Lucien Kroll nel 1969 è invitato dagli studenti a progettare un edificio di dormitori per gli studenti della facoltà di medicina di Woluwé attraverso lo scambio di idee, di esperienze, di soluzioni secondo un processo di assemblaggio.  Il collage informale, il patchwork mette in crisi le macrostrutture che si costruiscono contemporaneamente in tutto il mondo occidentale per accogliere una sperimentazione che riproporziona continuamente spazi comuni, privati, terrazze, vegetazione che si insinuano vicendevolmente nell’edificio.
Anche il Team X partecipa al concorso di case sperimentali a Lima come banco di prova dell’abitare alternativo. Ricordiamo le case a Delft di Hermann Hertzberger del 1967, il Villaggio Matteotti di De Carlo a Terni, il complesso a Ivry di Jean Renaudie.
Il Cohousing è stato lanciato e realizzato da Jan Gudmand-Høyer e persegue i principi di: multigenerazionalità degli utenti, uso collettivo di alcuni spazi e servizi, territorialità, progettazione, costruzione e gestione “dal basso”. Lo studio Tegnestuen VandKunsten realizza su questi principi il complesso Savværket nel quale lungo un percorso coperto segmentato da spazi ad “L”, si aprono attrezzature soft edge tra la sfera privata e pubblica. Sullo stesso tema ritroviamo Ralph Erskine con il Byker Wall a New Castle, attento alla realtà degli utenti e alle loro specificità culturali; il suo approccio non esclude gli esiti formali, in quanto il grande Wall è un landmark, e nemmeno quelli per tessuto, rivolti alla micro-scala residenziale e alle relazioni della comunità.

 

 

 

 

 

lunedì 15 aprile 2013

E’ qui New Babylon?

FRANCESCO CARERI: dal suo blog ARTI CIVICHE, l'articolo delle sue esperienze:
(articolo pubblicato su "lo squaderno n°18" “, The value of places / Il valore dei luoghi, December 2010, pp. 61-65, traduzione inglese dal link)
New Babylon di Constant Niewenhuys
La prima volta che incontro Constant è nel suo studio ad Amsterdam nel gennaio 2000. Parliamo di New Babylon ville nomade, del rapporto che lui aveva con i gitani (parlavamo in francese), del terrain vague come spazio neobabilonese. Per tutta risposta mi indica una grande finestra tappata, e mi racconta che dietro c’era un terrain vague in cui fino a dieci anni prima si accampava un gruppo di Sinti, facevano fuochi, feste e musica e lui ogni tanto andava a trovarli. Era diventato amico di alcuni musicisti gitani con cui facevano delle serate e suonavano nelle feste degli amici. Finchè i Sinti se ne erano dovuti andare per far posto al nuovo quartiere, e lui aveva deciso di chiudere la finestra con un cartone: non si vedeva più niente di interessante, New Babylon non c’era più, si era spostata in qualche altro terrain vague della Terra. È da allora che mi chiedo se il terrain vague debba essere l’unico luogo disponibile all’abitare dei Rom o se non si possano immaginare luoghi dove sperimentare New Babylon più stabilmente. Se il popolo Rom porta veramente con sé i semi di New Babylon, e se nei loro accampamenti ci sia veramente una New Babylon in nuce. Soprattutto se non sia possibile cominciare a lavorare con loro per costruire una New Babylon che non sia né una baraccopoli infestata di ratti né una megastruttura ipertecnologica.
Nell’agosto del 2005 Constant è morto. Ho il rimpianto di non essere mai riuscito ad organizzare un suo viaggio a Roma a trovare Stalker che in quegli anni lavorava al Campo Boario insieme a tante comunità straniere, tra cui i Rom Kalderasha. Pochi giorni dopo la notizia decido di partire per un pellegrinaggio ad Alba a cercare l’accampamento dei Sinti Piemontesi dove tutto era cominciato. Insieme ad Armin Linke e Luca Vitone andiamo a Torino ad incontrare la figlia Martha che ci mostra le foto di famiglia, e poi ad Alba a vedere se esistono ancora i Sinti che nell’autunno del 1956, Constant aveva incontrato accampati nel terreno di Pinot Gallizio . Li troviamo là, ancora accampati sulle rive del Tanaro, non più con i carri e i cavalli delle foto in bianco e nero, ma in casette di muratura con portici e tettoie per le roulotte, un piccolo quartiere di casette con giardino costruito abusivamente sotto la continua minaccia di un esondazione del fiume o di uno sgombero delle forze dell’ordine. Per loro Constant aveva elaborato il suo primo progetto architettonico, l’Accampamento degli Zingari di Alba, l’inizio di quella utopia concreta sviluppata nei venti anni successivi come New Babylon: la città nomade che dopo la rivoluzione situazionista avrebbe abolito il lavoro, la necessità di una dimora stabile e di che avrebbe abitato una terra senza frontiere ramificandosi in una deriva continua, realizzando una nuova umanità itinerante e multiculturale: il popolo errante dei neobabilonesi. Ripartiti dall’accampamento di Alba comincio a pensare che i situazionisti in realtà non avevano saputo sfruttare appieno l’occasione che gli si presentava. Invece di misurarsi con le reali necessità dell’accampamento sinto, si erano rifugiati nella teoria, nella politica e nell’utopia architettonica . Il campo dei Sinti avrebbe potuto essere un terreno comune in cui mettere in campo le loro capacità creative e relazionali, in cui sperimentare l’autocostruzione di una città multiculturale da progettare e realizzare in forma ludica, interdisciplinare e partecipante, in cui insomma verificare quella nuova disciplina estetica e politica di trasformazione dello spazio che avevano chiamato urbanismo unitario.
Ad Alba non vedo la New Babylon nomade che idealizzavo, ma un modo di vivere più stabile e comprendo anche che se lasciati vivere in pace i cosiddetti “nomadi” sanno dare forma stabile ai loro desideri abitativi. I Sinti di Alba saranno spostati in campo nomadi tra il canile municipale ed il carcere dove non saranno più liberi di costruirsi le loro case e il loro habitat, come tutti gli altri “nomadi” di questo paese. Anche per loro sarà attivata quell’urbanistica del disprezzo che li confina tra le discariche in attesa che il valore dei terreni salga per essere poi ciclicamente spostati . Nel loro futuro non c’è nessuna New Babylon.
Campo nomadi abusivo di Alba
Dopo la visita di Alba mi rendo conto che bisogna andare là dove i situazionisti si sono fermati, nella concretezza spietata dei campi nomadi, e comprendo anche quanto idealizzare il nomadismo non fa che aumenti la nostra distanza e l’ignoranza riguardo al mondo dei Rom. Forse bisogna capire che cosa di New Babylon può essere utilizzato per cercare una risposta alternativa concreta ai campi nomadi. Forse di deve trovare insieme a loro un terreno comune dove sperimentare l’Urbanismo Unitario nelle nostre condizioni storiche, senza l’abolizione del lavoro e senza che si sia mai realizzata la rivoluzione situazionista. Dal 2006 con Stalker ci immergiamo con tutto il corpo nelle molteplici forme di abitare forzato dell’universo nomade . Visitiamo decine di insediamenti, baraccopoli, case di lamiera di cartone e di mattoni, tende, casali occupati, villaggi dentro fabbriche dismesse, aree di transito, campi autorizzati a diventare bidonville senza acqua né luce né fogne, campi attrezzati con container dove crescono sovraffollandosi intere generazioni senza documenti né identità e infine la risposta tecnicamente più avanzata ideata dalle istituzioni per fronteggiare l’“emergenza nomadi”, i famigerati “villaggi della solidarietà”.

Sono le nuove “città per i nomadi” che saranno esportate nel resto di Italia e forse in Europa, la loro “città a parte”, il loro apartheid: stati di eccezione segreganti, fuorilegge perché creati con legislazioni di emergenza e in deroga alle leggi e agli standard abitativi, lontani e invisibili dalla città, disegnati come stretti filari di container sovraffollati, con reti metalliche tutto intorno, telecamere di videosorveglianza a circuito chiuso, ingresso vigilato 24 ore su 24, impossibilità di entrare anche per i parenti stretti. Gli abitanti di questi nuovi campi di concentramento non portano un numero stampato sul braccio ma, dopo essere stati fotosegnalati e schedati, gli viene distribuito il DAST , un documento che serve a entrare e uscire dai campi con orari stabiliti, non oltre le dieci di sera, non prima delle sei di mattina. Chi rifiuta i campi o sfugge alla schedatura cercando una sua strada alternativa si trasforma definitivamente in “clandestino”, e potrà essere rinchiuso, senza processo e senza aver commesso reato, in un C.I.E (Centro di Identificazione ed Espulsione). e forse rimpatriato in una patria che non ha mai conosciuto (la maggioranza di loro sono nati e cresciuti in Italia). Entrando in questo mondo capisco quanto siano equivoche le parole campo e nomadi, un alibi per inchiodare nei campi sosta chi avrebbe voluto continuare ad essere nomade o seminmede come i Sinti e i Rom Kalderacha, e per nomadizzare in una vita costantemente precaria chi nomade non era mai stato e invece aveva una casa come molti profughi delle guerre dei Balcani, a cui per sempre sarà negato il diritto a una casa.
Inutile dire che New Babylon non è in nessuno di questi campi.
Savorengo Ker
In alternativa ai campi di container dell’apartheid della solidarietà, nel luglio del 2008 insieme ai Rom del Casilino 900 costruiamo Savorengo Ker , che in lingua romanés significa “la casa di tutti”, una piccola casetta in legno costata un terzo di un container, ideata, progettata e realizzata direttamente da chi avrebbe voluto andarci ad abitare. Una casa manifesto che intende dire che i Rom non sono più nomadi, che vogliono una casa e che sanno organizzarsi tra loro e lavorare per costruirla. Una casa non solo per i Rom ma per tutte quelle persone che oggi si trovano in emergenza abitativa e a cui è negata la possibilità di una terra su cui costruire in modo stabile la propria vita. La costruzione della casa è uno dei momenti più alti di condivisione tra le nostre culture, un momento di convivialità di gioco e di partecipazione, un mese di utopia collettiva vissuta e abitata profondamente da tutti. La cosa più importante che tutti impariamo è che lo spazio dell’integrazione si produce attraverso un atto di creazione collettiva, in cantiere, costruendo insieme la propria casa, mangiando la sera di fronte al fuoco, ragionando insieme su cosa costruire il giorno successivo mettendo in comune le proprie competenze e le proprie aspirazioni. Sperimentiamo e dimostriamo nei fatti che le buone relazioni di vicinato, di pianerottolo, di condominio si possono costruire lavorando gomito a gomito, che la città si può costruire passandosi il martello e i chiodi. New Babylon si può realizzare inchiodando insieme le tavole di un tetto.
Qualche tempo dopo dalla prefettura di Latina arriva l’invito a partecipare alla realizzazione di un campo nomadi utilizzando il nostro modello di casa. Rispondiamo che Savorengo Ker era un simbolo che intendeva annullare l’idea stessa di campo, era l’inizio di un processo che avrebbe fatto evolvere il Casilino in un quartiere interculturale e quel quartiere in una città. Non un campo fatto di cloni di Savorengo Ker al posto dei container, ma case tutte diverse nate dalle relazioni con gli abitanti, una New Babylon di desideri abitativi che bisogna fare emergere insieme ai Rom in un processo di ascolto e trasformazione reciproca. Savorengo Ker è stata bruciata da ignoti nel dicembre del 2008, il Casilino 900 è stato sgomberato nel gennaio 2010, i suoi abitanti abitano oggi nei villaggi della solidarietà. Ma Savorengo Ker è stata una straordinaria avventura neobabilonese.
Savorengo Ker dopo il rogo
 Dopo il rogo di Savorengo Ker la sfida è rilanciare a una scala più grande, non una casa ma un insieme di case, una sorta di condominio in autocostruzione non solo con i rom ma anche con gli italiani e includendo anche altri migranti. Bisogna dimostrare che non solo i Rom sanno organizzarsi per lavorare e che sono abili costruttori, ma che possono costruire la propria casa insieme ad altre culture e che possono essere ottimi vicini di casa per tutti. In attesa che questo semplice concetto venga compreso dalle amministrazioni e dai politici (si sa che ogni politica in favore dei rom non fa guadagnare consensi ma fa perdere voti) abbiamo cominciato a lavorare dove questo sta già succedendo. Da qualche settimana abbiamo cominciato a lavorare al Metropoliz, una ex fabbrica dismessa sulla via Prenestina, poco prima del grande Raccordo Anulare, in cui coabitano circa duecento persone provenienti da Perù, Santo Domingo, Marocco, Tunisia, Eritrea, Sudan, Ucraina, Polonia, Romania e Italia . A differenza di tutte le altre occupazioni a scopo abitativo di Roma, a Metropoliz sono stati inclusi i Rom. Sono cento Rom provenienti dalla Romania, che hanno rifiutato i DAST, i campi nomadi e i villaggi della solidarietà. A Metropoliz sta nascendo uno spazio meticcio inclusivo, non un luogo etnico per soli Rom, ma un processo di autocostruzione multiculturale che mette in gioco più culture abitative, valorizza le competenze e le capacità costruttive e stimola la convivenza degli abitanti. Una donna peruviana mi ha detto che gli altri occupanti quando avevano saputo che ci sarebbero stati i Rom si erano disperati, pensavano che non avrebbero fatto uscire i bambini e che si sarebbero tappati in casa, ma invece dopo le prime settimane di convivenza hanno realizzato che il problema era infinitamente più piccolo di come se lo erano figurato, che adesso c’è qualche problema ma come in ogni normale relazione di condominio. Suo marito, anche lui peruviano, è il coordinatore della squadra edilizia di questa città in trasformazione permanente. Mi ha raccontato che tra lui, l’elettricista marocchino, i muratori africani, i camionisti rom e l’idraulico e il vetraio italiani, parlano una lingua mista di arabo, rumeno, italiano ed eritreo, con parole che anche se pronunciate male o addirittura trasformate in altre, sono ormai comprensibili a tutti. La settimana scorsa con gli studenti abbiamo recuperato una grande sala dove venivano essiccati i salumi e l’abbiamo trasformata in aula, il suo nome è Pidgin Makam .

Pidgin è una lingua semplificata che si sviluppa come mezzo di comunicazione tra due o più gruppi venuti a contatto a seguito di migrazioni o colonizzazioni e che non hanno un linguaggio in comune . La parola Pidgin deriva dalla scorretta pronuncia cinese dell'inglese busines, ed è una lingua costruita con parole sbagliate o mal pronunciate, che permette di costruire una prima comunicazione tra diversi.
Makam in arabo vuol dire “luogo” ma è anche un vocabolo musicale che indica un sistema di melodie aperto a composizioni e improvvisazioni dove la componente ritmica temporale non è soggetta a organizzazioni predefinite.
Pidgin Makam è lo spazio del reciproco apprendimento di questo nuovo condominio neobabilonese.

mercoledì 10 aprile 2013

To_Do_10.4.2013_Ipertesto


Testi a confronto_suggestioni

La forza dell’architettura sta nell’affrontare le dinamiche sociali, economiche, politiche in una prospettiva futura attraverso la sperimentazione di nuovi strumenti. Nell’era macchinista la produzione in serie era il metro cui conformarsi e da cui trarre ispirazione per la risoluzione delle problematiche sociali della classe operaia: lo standard era la risposta per un’esistenza che avesse caratteristiche quantitative minime alla vita e per raggiungere prestazioni di qualità. Ridurre per massimizzare, una soluzione, un metodo, un programma, un vassoio. Non volendo minimizzare ma anzi estremizzare il discorso riconnettendolo ai giorni nostri, il mondo continua a intraprendere percorsi che cercano sempre di mettere in discussione qualsiasi forma di determinismo. La complessità, l’integrazione, l’evoluzione sono elementi che indicano quanto la processualità faccia parte della nostra cultura. E’ così che Baumann rappresenta la società del nostro mondo urbanizzato, con le differenti fratture culturali che non corrono parallele le une alle altre, ma si intersecano formando una configurazione sempre mutevole di fratture trasversali (come nel Museo Ebraico di Libeskind). Come nell’architettura, c’è bisogno ogni volta di rinegoziare i confini, di non abbandonarsi all’uniformità, ma porsi in una condizione di continua ricerca. Bisogna essere universali pur utilizzando strumenti relativi, pronti riadeguarsi alle nuove esigenze. E’ per questo che vorrei legare il mio discorso ad una prospettiva odierna: la continuità tra architettura, ambiente ed elettronica è lo strumento a disposizione degli architetti di oggi. Se questa è l’epoca dell’informazione, dove gli spazi sono invisibili in una prospettiva di interscambio globale senza limiti temporali, in cui l’architettura si fa viva attraverso esseri informatici ed è non solo multi-sensoriale ma si fa sensore stesso, se è questa la cultura di oggi ed è questo il nostro campo d’azione per la nuova architettura, come faranno altre culture a conciliarsi e non entrare in conflitto se non adeguandosi? Non si può pensare ad un’ assimilazione delle differenze, nemmeno ad un melting pot asettico di più elementi senza distinzione. L’idea vincente è quella del pluralismo culturale, del multiculturalismo, del mosaico, della tassellizzazione, in quanto non esisterebbe un organismo senza le sue parti,  una protesi senza la guida di un organo, magari una copertura flessibile e unificante come quella del Mercato di Santa Caterina a Barcellona senza i suoi elementi colorati a ravvivare le facciate delle abitazioni vicine. E’ necessario il controllo di tutti questi fenomeni a livello generale e collettivo, ma nel pieno rispetto delle piene libertà individuali ed espressive.

 

martedì 9 aprile 2013

Architettura e Modernità_la lettura e l'interpretazione

Parte settima_Il successo dell’architettura nel mondo: 1988-2000

Il fermento storico di quegli anni non può lasciare nell’indifferenza architetti di vecchia e nuova generazione. Il “secolo breve” si è concluso, i blocchi internazionali si sono lacerati e i confini geografici, culturali, identitari sono materia plastica da rimodellare secondo le nuove esigenze della società post-fordista che vuole liberarsi dalle rigide norme internazionali. La rottura è il concetto che sta alla base della nuova era informatica, in cui l’immagine drammatica del mondo dopo la crisi degli anni ’70 non poteva più essere ricomposta riassemblandone i pezzi. Decostruire, un’immagine che non lascia spazio alla ricomposizione di ciò che è andato distrutto, ma che anzi apre la possibilità agli architetti contemporanei di poter guardare lo spazio in modo trasversale. L’unico modo per comunicare con l’esterno è scatenando emozioni forti e destabilizzando le menti, attraverso ambienti che nel loro dispiegarsi ci turbano, si muovono ed evocano simboli ed immagini. Così Libeskind pensa il suo Museo Ebraico, o Steve Holl il Kiasma.  La crisi del sistema industriale dà l’opportunità alla nuova società della comunicazione di riconquistare spazi abbandonati all’interno e fuori da quelle città private della loro funzione originaria e agli architetti di riconfiguararle secondo le nuove esigenze. La città funzionalista viene abbandonata insieme all’idea seriale di vita secondo comparti omogenei per abbracciare un nuovo fluire vitale di interconnessioni dinamiche che combinano architettura, società e naturalità in un programma di mixitè. Potzdamer Platz di Renzo Piano,  i Grands Projects di Parigi, la nuova Barcellona che approfitta dell’evento internazionale delle Olimpiadi per rilanciare economicamente la propria città e gli stessi cittadini alla condivisione. Una vitalità, quella degli anni ’90, che porterà architetti e paesaggisti a confrontarsi con un mondo alla deriva, sofferente, distrutto dall’era macchinista, perpetuatasi per 150 anni: si rivendicano l’ecologia e l’attenzione verso forme di energia sostenibile e rinnovabile. Il progetto Biosphere 2 è un organismo un sistema fragile che va tutelato e preservato.
Altri gesti si possono menzionare per descrivere le nuove scoperte: muovere emozionando, giustapporre sovrapponendo, dare profondità attraverso le superfici. Santiago Calatrava sperimenta sculture in movimento, che anche quando sono immobili animano il fruitore, facendolo diventare anche spettatore. Rem Koolhas invece scompone immagini e spazi e realizza architetture senza comporle, ma somma le parti dell’organismo creando ibridazioni sempre diverse e suggestive, paradossalmente interconnesse. Le trasparenze della facciata della Fondazione Cartier di Jean Nouvel sono fittizie, sono come degli specchi, che mostrano all’esterno non quello che c’è dentro ma quello che la società e il mondo vuole vedere. La superficie è una pelle ed ha uno spessore: così Herzog & De Meuron intessono le loro facciate.
Peter Eisenman risponde in modo nuovo al problema del movimento attraverso l’operazione del blurring, cioè sovrapponendo singoli movimenti rotatori che sfocano e negano l’immagine di partenza; un’azione che genera spazi audaci di cui ha consapevolezza solo chi sa lavorare sulla sezione (Aronoff Centro per le Arti, Cincinnati, 1988-97). Folding, grafting, scaling generano spazi ricchi, multisfaccettati, ibridi, dinamici.
Frank Gehry concepisce i suoi spazi come una scena teatrale in cui i suoi personaggi-volumi possono esprimersi, seguendo percorsi e traiettorie scultoree e configurando spazi racchiusi nell’abito più comodo possibile. Il protagonista è lo spazio e il suo pubblico la sua pelle in un rapporto di reciproca dipendenza. L’architetto dimostra al mondo come l’architettura possa essere un catalizzatore di eventi, di economia, di socialità, come nel Museo di Bilbao: il consumismo diventa una pratica architettonica, entra a far parte della società come episodio, come fenomeno condivisibile da tutti.

L’«altro» nemico_testo scelto


ll libro (vedi unior.it) che ho scelto di leggere si presenta come una raccolta di lezioni del corso di Relazioni interetniche del corso di Laurea Specialistica di Scienze Politiche de L’Orientale di Napoli, scritto dal prof. Claudio Marta (scomparso nel 2008, antropologo prestigioso che sin dall’inizio degli anni ’80 si impegna, da studioso e da attivista, nelle battaglie per i diritti degli immigrati, dei Rom e dei Sinti contestando la politica dei «campi nomadi») in collaborazione con Ciro De Rosa e Gianluca Gatta.
 
Ogni capitolo di questo libro è una lezione; e come in ogni corso - o percorso - non si può comprendere la singola spiegazione se non la si integra con le altre indissolubilmente. Infatti l’esordio del libro ne riassume la fine, senza che noi ce ne rendiamo conto. Alcuni concetti che oggi echeggiano, rimbombano e ci colpiscono attraverso i mezzi di comunicazione di massa, sono entrati nel nostro linguaggio senza conoscerne il vero significato e la loro origine: “etnie”, “folk”, “Vulk”, “culture”, civiltà”, “società”, “popolo”, “razza”, “minoranza”, “identità”, “stereotipo”, “nazione”, “stato”. Questi termini vengono utilizzati in modo diverso in relazione alla storia, alla politica, all’economia, al diritto dei diversi paesi del mondo occidentale e il loro significato si è sempre modificato nel tempo, adattandosi al contesto di riferimento e alle situazioni contingenti. Con il Positivismo, estremizzazione di quella necessità illuministica di conoscere razionalmente tutto lo scibile umano, nascono nuove materie di studio, tra le quali anche l’Antropologia nella moderna accezione, il “sapere della differenza”, lo studio dell’«altro», di chi è diverso culturalmente da “noi”, e del modo con cui “noi” rappresentiamo l’«altro» e l’«altro» rappresenta “noi”. Concetti, teorie, casi di studio vengono presentati nel libro, ci raccontano della fallacia di molti approcci e analisi che si sono susseguiti in secoli o decenni di storia occidentale, delle risoluzioni di alcuni “conflitti etnici” e delle rivendicazioni, delle ideologie, delle politiche che si attivano in relazione a questi fenomeni.  
Le relazioni interetniche: un tema che mette in relazione politica, società, ideologie, da quelle volte all’eliminazione fisica di determinati gruppi (i genocidi, lo sterminio nazista, le politiche di sterilizzazione forzata in Svezia), alle politiche d’immigrazione degli Stati Uniti, paese che per primo si è confrontato con il tema dell’integrazione delle “differenze etniche”( dall’assimilazionismo dell’Anglo-Conformity, al melting pot, al pluralismo culturale dell’ orchestra di Kallen), e dell’Europa a partire dal secondo dopoguerra (Francia e Germania e le braccia per un’Europa da ricostruire, gli “ospiti”, i flussi migratori, la chiusura delle frontiere e la clandestinità) . In epoca moderna affiorano diverse politiche improntate sul multiculturalismo (le pratiche di integrazione degli immigrati nel Regno Unito e in Svezia) e la questione dei diritti umani nella prospettiva antropologica, seguendo le tappe del dibattito tra universalismo e relativismo culturale, teorie che hanno prodotto diversi effetti nei vari casi di studio analizzati. Gli esiti di queste politiche non sempre sono vincenti e spesso vengono messe in discussione dal nuovo razzismo e anti-islamismo post 11 settembre. Caso a parte costituisce il laboratorio di cittadinanza multiculturale canadese (il Quebec ).

Le politiche migratorie in Italia nascono negli anno ’80, quando il paese migrante diventa paese d’immigrazione: la “Grande Emigrazione “ oltre l’Atlantico, le migrazioni in Europa negli anni ’20, lo status di rifugiati durante il Fascismo, gli anni ’50 e l’esportazione di manodopera, la drastica riduzione delle migrazioni negli anni ’70 della crisi post-fordista, lo sviluppo del settore terziario e i nuovi scenari produttivi e lavorativi, il crollo dei regimi socialisti e i migranti dell’Europa dell’Est, la stabilizzazione di nuovi migranti in Italia. Le prime leggi italiane sulle migrazioni non affrontano sistematicamente la questione degli ingressi, ma predispongono continue sanatorie, nasce la figura dell’extracomunitario, della Fortezza-Europa e l’inquietudine per l’immigrazione clandestina. Le leggi rispondono ad emergenze (L.943/86, Legge Martelli L.39/90, il disegno di legge restrittivo del primo governo Berlusconi nel 1995, D.l. 489/95 la nuova sanatoria di Dini). La prima legge organica è la Turco-Napolitano L.40/98, che si regge sull’integrazione e il sistema delle quote di ingresso. Si è timidi nel percorrere la strada della cittadinanza e i Ctp ( Centri di Permanenza Temporanea) diventano luoghi di sospensione del diritto. La legge, ritenuta troppo permissiva, viene modificata nella filosofia di fondo del testo dalla Bossi-Fini L.189/02 in senso restrittivo. La proposta di melting pot Amato-Ferrero del 2007 cade con il governo Prodi. L’immigrazione in Italia è sempre stata affrontata come una questione di ordine pubblico, misconosciuta a livello fisiologico dello scenario globale, l’idea dell’invasione, del pericolo, della marginalità e della criminalità, la generalizzazione degli stranieri, la produzione di leggende metropolitane e l’attuale fenomeno dell’islamofobia e del terrorismo fanno parte della società odierna.
Gli etnonazionalismi baschi in Spagna e in Irlanda del Nord e le guerre della ex-Jugoslavia degli anni ’90 non sono più conflitti tra stati, ma coinvolgono le popolazioni civili, gruppi paramilitari irregolari e vedono schierati uno contro l’altro dei gruppi etnici. L’etnicità diventa il nuovo paradigma per interpretare i nuovi conflitti post-Guerra Fredda, anche se le spiegazioni culturaliste oscurano le cause economiche, sociali e politiche che stanno alla base dello scontro. Questa visione riduzionista riprende dal passato una concezione primordialista dei legami etnici. La rivendicazione di autonomia statuale sulla base del riconoscimento di un’identità etnico-nazionale ha lo scopo di proteggere quel gruppo ed escludere fuori dai propri confini chi resta fuori; esasperare le barriere fino alla pulizia etnica e praticare l’omogeneizzazione forzata di un territorio. “creare” gruppi e ritagliare in maniera arbitraria alcuni elementi ha portato nella ex-jugoslavia ad effettuare gravi abusi sul concetto di etnia.

I Rom sono una delle “minoranze” più discriminate i Europa, se così la vogliamo definire. Negli anni ’70 si è iniziato a parlare di identità Rom e si salvaguardia della loro cultura in tutta la sua complessità, rapportandola ai contesti economici e sociali concreti in cui vivono. La presunta incompatibilità con la società maggioritaria ha finito per prescrivere forme di segregazione e discriminazione razziale, fino a forme di aggressione. La varietà dei sottogruppi “zingari” trova come elemento comune la lingua romanes, anche se ibridata nelle diverse versioni locali e contestualizzata all’insediamento. In Italia il numero delle presenze oscilla tra le 110 mila e le 160 mila persone, di cui 70 mila cittadini italiani. Tra i gruppi di antico insediamento troviamo i Sinti del Nord Italia dediti tradizionalmente allo spettacolo viaggiante; quelli dell’Italia centro-meridionale risalgono al XV secolo. Alla fine dell’800 si sono insediati gruppi dalla Moldavia e dalla Valacchia, mentre quelli più recenti provengono dalla ex-Jugoslavia. Il dibattito sulle minoranze linguistiche in Italia ha avvalorato la tesi territorialista, che esclude le comunità di lingua non italiana che appaiono nomadi, disperse o che non caratterizzano tradizionalmente alcun territorio. Il nomadismo ha condizionato pesantemente e negativamente le politiche italiane, assolutizzando un tratto culturale  come alibi per non intervenire a favore delle popolazioni. La logica dei campi ha portato questa gente ad una rinomadizzazione forzata, all’unica soluzione abitativa possibile, come un problema sociale di ordine pubblico. Riconoscere la cultura rom come una specificità etnica da tutelare è necessario, ma per averne la garanzia bisogna comprendere il significato specifico che ciò assume nelle politiche di integrazione. E’ a livello locale e regionale che ci sono i maggiori problemi in quanto il coordinamento nazionale sugli interventi è assente e se ci sono rispondono alla logica dell’emergenza. Dagli anni ’60 si sono attuate politiche di integrazione sulla scolarizzazione secondo teorie che sono andate dall’assimilazionismo, all’integrazionismo, all’educazione interculturale degli anni ’90, in cui si riconosce la bilateralità dell’obbligo da parte delle P.A. e delle famiglie dei bambini rom. L’approccio complesso al problema, il relativismo culturale di base non ha portato a risultati concreti a causa dell’assenza di coordinamento nazionale. A livello europeo, il Consiglio d’Europa ha attivato dal 1996 il Comitato di Esperti sui Rom e i Viaggianti, il quale ha promosso diverse Raccomandazioni in materia di istruzione, lavoro, condizioni abitative, accesso alla sanità. Il Consiglio d’Europa e altri organismi europei hanno spesso, negli ultimi anni, criticato l’Italia per non aver operato in favore della rimozione degli ostacoli ad una piena integrazione dei Rom e dei Sinti. La concessione dei diritti di cittadinanza e politiche nazionali organiche e durature sul tema aiuterebbero ad abbandonare equazioni come zingari=criminali, zingari=ladri, zingari=ordine pubblico.